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*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK 75122 ***
GARIBALDI
DI
GIUSEPPE GUERZONI.
Vol. I
(1807-1859)
CON DOCUMENTI EDITI E INEDITI, PIANTE TOPOGRAFICHE
ED UN FAC-SIMILE.
Terza edizione.
FIRENZE,
G. BARBÈRA, EDITORE.
1889.
Compiute le formalità prescritte dalla Legge, i diritti di riproduzione
e traduzione sono riservati.
ALLA VENERATA MEMORIA
DI
C. V. B.
PRIMA ISPIRATRICE DI QUESTE PAGINE.
PREFAZIONE.
Amai Garibaldi con affetto di figlio e fedeltà di soldato: lo seguii
nelle sue imprese da Varese a Milazzo, dal Volturno a Condino, da
Aspromonte a Mentana; vissi con lui in Caprera circa nove mesi nella
dolce intimità della vita domestica, ed ebbi l’immeritata fortuna
di accompagnarlo nel suo gran Trionfo d’Inghilterra; fui sovente il
depositario e l’interpetre de’ suoi più nascosi pensieri, e, onore
anche più grande, non mi fu negato di fargli sentire, talvolta, i
consigli di quella che a me pareva la Verità; subii, come tutti coloro
che l’accostarono, il fascino della sua eroica bellezza; piegai, come
i più, all’impero della sua grande anima dittatoria, ma, liber’uomo
in faccia al Liberatore, ne sostenni i fulgori, e seppi scorgerne le
ombre; e spero che tutte queste ragioni mi giustificheranno presso ogni
discreto lettore dell’audacia di scriverne la vita.
«Una delle mille!» esclamerà qualche frettoloso. Pur troppo! Anzi fra
pochi giorni si potrà soggiungere: una delle migliaia! E in verità se
non avessi dovuto ripensare ad altro che a quanto fu scritto in passato
e si scriverà ancora in avvenire, nei secoli più lontani, intorno a
Garibaldi, la tentazione di presentarmi anch’io a questo universale
torneo di penne, non mi sarebbe passata pel capo. Soltanto non bisogna
dimenticarsi che se la bibliografia di Garibaldi è già grande, e sarà
tra poco immensa, Garibaldi lo è ancora più. Egli può dirsi, come
il Shakespeare immaginato da Vittor Hugo: infinito come l’Oceano.
Invadetelo da tutti i porti: navigatelo, corretelo, frugatelo in tutti
i sensi, e vi resterà sempre qualche seno nascosto, qualche banco
sottacqueo, qualche scogliera inavvertita, dove anche la navicella del
più umile ingegno potrà ormeggiarsi e gettar lo scandaglio.
Lo so! non correranno molti anni e ci sarà una _Letteratura
Garibaldina_, come ci è una Letteratura Omerica, Dantesca,
Shakespeariana e via dicendo; ma affinchè quella letteratura possa
sorgere degna del suo grande tema, ed acquistare un valore reale nella
storia della nostra patria e del nostro secolo, occorre anzitutto che
il pubblico dei lettori e dei critici non guardi soltanto alla mole dei
libri pubblicati sullo stesso soggetto, non li misuri tutti in fascio a
occhio e croce, non faccia il viso dell’arme ad ogni libro nuovo, solo
perchè viene ad ingrossare la catasta de’ vecchi. Abbiamo ed avremo
la farraginosa compilazione indigesta, e l’utile compendio popolare;
abbiamo ed avremo la pesante orazione accademica, e lo svelto bozzetto
giornalistico; abbiamo ed avremo il partigiano panegirico tribunizio
e la rabbiosa invettiva clericale; abbiamo ed avremo la scialba
fotografia borghese o la pettegola cronica aneddotica, e la sintesi
ardita coniata in bronzo, o la greca effigie incisa in cammeo: non
abbiamo ancora, ma forse l’avremo un giorno, la Vita Plutarchiana, il
Poema Omerico, o il Dramma Sofocleo; e confido che in questa mondiale
biblioteca non si vorrà rifiutare l’entrata anche a questo mio modesto
volume, che non è ancora, s’intende bene, la storia; ma che pure
aspira, senza jattanza come senza ipocrisia, a tentarne il primo saggio
ed a scriverne la prima sillaba.
E forse con ciò ho già detto che questo non è un libro d’occasione.
Egli segue di poche settimane la scomparsa dell’eroe; ma esso fu
meditato e preparato da tempo. Frutto sudato di quasi tre anni di
ricerche, di studi, di fatica, esso potrà meritare tutte le taccie
fuorchè quelle della estemporaneità e della fretta. Il culto stesso,
che tanto io quanto i miei giovani editori, professiamo alla memoria
venerata del grande Patriotta, ci avrebbe sempre preservati da questo
sacrilegio. Nè io avrei mai voluto deporre ai piedi della tomba recente
di Caprera il vile tributo d’una compaginatura abborracciata, nè gli
eredi dell’onorato nome di Gaspero Barbèra avrebbero mai consentito a
prestar mano ad un’opera bastarda che, sfruttando una grande popolarità
ed una grande sventura, mirasse soltanto ad occupare il già troppo
stipato mercato librario e ad impaniare in una frasconaia di pagine
rapinate il pubblico dabbene.
Ben altro fu il mio scopo; ben altra è la mia speranza. Ripensando
spesso, e come non pensarvi!, a Garibaldi; riguardando a quella
nova e portentosa figura di gigante, rifacendo nel mio pensiero il
poema di quell’epica vita, poscia leggendo o rammentando quanto si
era scritto di lui in verso e in prosa, m’era accaduto, in più d’un
caso, di consentire o d’ammirare; ma poi, riepilogando le cose lette
e confrontando il Garibaldi del mio pensiero con quello stampato
fin allora ne’ libri, chinavo il capo con un senso di scontentezza e
conchiudevo: Eppure in tutti questi volumi c’è del bello e del buono,
ma il Garibaldi vero, il Garibaldi della storia, non del romanzo; della
patria, non della parte; dell’amore, non dell’idolatria, è molto, ma
molto lontano di qui.
E va da sè ch’io non m’impanco in alcun modo a censore di coloro che
mi precedettero in questa medesima impresa, ed a molti dei quali io
stesso vado debitore di non pochi ed utilissimi sussidi. Incitati
dall’occasione, incalzati dall’ora, preoccupati principalmente di
portare, come corre il detto, il loro «sasso all’edificio,» lavorarono
co’ primi materiali che loro caddero sotto mano, scrissero come l’amore
dettava, e sarebbe davvero imperdonabile indiscretezza il chieder loro
di più.
L’ingratitudine di chi viene ultimo non sarà certo, per parte mia,
il compenso di chi ebbe il merito di essere primo. Soltanto non è far
torto a chicchessia il dire che per ragioni affatto indipendenti dalla
volontà e dall’ingegno degli scrittori anteriori, i falli trascorsi e
i vuoti rimasti ne’ loro libri sono ancora sì numerosi ed importanti,
che diventa impossibile accettar quelle opere per fondamento certo e
per modello compito d’una vera storia critica e ragionata dell’uomo
che hanno rappresentato. E rinviando al testo ed alle sue note l’esame
dei particolari, ecco in riassunto i difetti capitali e le lacune più
evidenti che scòrsi in quelle opere e più vivamente mi colpirono:
Una trascuranza ingiustificata dell’ambiente in cui Garibaldi crebbe
e si sviluppò; quindi un esame molto leggero ed una rassegna molto
affrettata di tutti quegli elementi domestici, sociali e politici,
che dall’arte paterna all’educazione materna, dai primi suoi amici
ai primi suoi viaggi, dalle sue lunghe consuetudini colla sconfinata
libertà del mare alla sua dimora decenne tra le solitudini della pampa,
contribuirono a svolgere il germe della sua vita eroica ed a plasmare
il suo carattere;
Una conoscenza scarsa ed una esposizione inadeguata della storia e
delle costumanze, delle fazioni e delle rivoluzioni appunto di quei
due Stati dell’America meridionale, il Rio-Grande e l’Uruguay, tra i
quali Garibaldi si formò; epperò una rappresentazione troppo vaga e
fantastica della parte che egli vi ebbe, degli influssi che vi subì,
del patrimonio di idee e di abitudini che ne riportò;
Un’analisi troppo superficiale od una sintesi poco fedele di tutte
quelle antinomie, quelle contraddizioni, quelle mutazioni rapide
ed assidue che frastagliano come fasci di vapori nembosi la serena
splendidezza del suo volto, e lo convertirebbero in una specie di
Proteo mostruoso, se allo storico armato della fiaccola della filosofia
mancasse l’ardire di scendere fino all’ultimo fondo gli abissi di
quell’anima, e scrutarne l’alto mistero;
Una narrazione delle sue imprese dal 1859 al 1870, specie delle
maggiori, di Marsala, Aspromonte e Mentana, veridica e piena nel
suo complesso; ma in molti particolari scarsa, in molte affermazioni
gratuita, in molti giudizi erronea, e che svisando alcuno dei tratti
più caratteristici dell’Eroe nelle tre azioni più importanti della sua
vita, svisano insieme ne’ suoi aspetti più solenni la storia del nostro
Risorgimento;
Infine, ed è forse il più, una narrazione parziale ed angusta delle
sue gesta militari, ed una sconoscenza o grossolana o meschina delle
sue doti geniali di vero e grande Capitano; parzialità, angustia e
sconoscenza che traggono origine in gran parte dai pregiudizi e dalle
gelosie della vecchia scolastica militare, che questo mio libro non
riuscirà certamente a debellare, ma che forse sforzerà ad ammutolire od
a provare il contrario.
Ora, scemare, per quanto sia da me, questi difetti e colmare, fin
dove possa, queste lacune; tentare la prima prova di una storia
ragionata e documentata di Garibaldi, nè frigida nè passionata, nè
piazzaiola nè scolastica, che prepari almeno le fondamenta della
storia futura e cominci il giudizio della posterità; ricostruire
al lume della critica e della ragione tutta intera la maravigliosa
figura del gigante, rifondendola coi frammenti più preziosi offerti
dalle opere precedenti e rassodandola sul suo eccelso piedestallo,
col sussidio dei documenti più autentici e delle testimonianze più
autorevoli che mi fosse dato raccogliere; rimontare fino alle origini
della sua grandezza, cercandone nei primi ambienti in cui si svolse
la sua gioventù, le cause ed i fattori; rifare con maggiore ampiezza
e precisione la sua vita di marinaio e cospiratore; correggere, per
ingrandirla e nobilitarla, la sua leggendaria odissea d’America,
rifacendogli d’attorno, in una storia più veridica ed accurata di quel
paese, una scena più pittoresca e più viva; difenderlo dalle partigiane
contumelie, difenderlo ancora più dalle cortigiane piacenterie;
cingere, se fosse possibile, d’aureola più luminosa il suo volto,
ma segnarne al tempo stesso i chiaroscuri, notarne le disarmonie,
confessarne le imperfezioni; affrontare, trepido ma non sgomento,
l’enigma forte della sua anima, e senza lasciarmi intimidire dalla
incantevole sfinge, nè arrestarmi ai primi aspetti del fenomeno,
cercare di penetrarlo fino al fondo, fino a quella causa prima e
a quell’idea madre che concilii gli opposti ideali in una sintesi
suprema; rinnovare con maggior larghezza e precisione tecnica la storia
delle sue campagne, fin qui immiserita o svisata, rivendicando da tutti
i preconcetti di casta e di scuola le sue geniali qualità di capitano,
e sfatando la badiale sentenza: «Fu un ardito guerrillero, non un
generale;» questi sono gli scopi principali ed accessori, temerari,
ma non superbi, di questo libro, che vorrebbe essere, se la materia
rispondesse «all’intenzion dell’arte,» un ritratto ed un quadro,
un saggio critico ed un racconto, una storia politica ed una storia
militare.
Sarò io riuscito? È l’eterna domanda di chi fa, alla quale raramente
soddisfa la risposta di chi giudica. In ogni modo questo so di certo,
che dall’istante in cui la tentazione di mettermi a questo cimento mi
colse, non ebbi più posa. Scrissi in America per aver libri; viaggiai
mezza Italia per raccogliere documenti; tempestai di lettere e di
quesiti centinaia di persone; ammucchiai nel mio studio monti di
manoscritti e di volumi, da parecchi dei quali non trassi altro frutto
che il perditempo e la noia di leggerli; misi a contributo di notizie
tutti gli amici e commilitoni del Generale; osai persino salire, nella
mia questua di documenti, le scale della Reggia, ridiscendendone,
è vero, a mani vuote (e non certo per volontà di re Umberto), ma
commosso e confuso dalle parole altamente benigne con cui il figlio di
Vittorio Emanuele volle accogliere il mio annunzio e incoraggiare il
mio libro.[1] Ma ohimè! Se lo scovare i documenti della storia passata
nella polvere degli archivi e fra le tarme dei codici è cosa difficile,
strappare le testimonianze della moderna alle mani ed alla bocca de’
contemporanei, lo è ancora più. Nessuno concede tutta la verità, o
la concede pura, o la concede in tempo. Interrogate dieci persone,
testimoni auricolari ed oculari dello stesso fatto: dieci risposte
diverse. Chi fraintende il quesito; chi annega una briciola di notizia
in una fiumana di ciancie; chi per la biografia dell’eroe vi dà la sua;
chi risponde tardi, quando il capitolo è già scritto e l’informazione è
divenuta inutile; chi non risponde affatto. Il giornale politico scrive
pel suo Delfino, il documento ufficiale dice la verità ufficiale,
il personaggio importante si tiene prudentemente abbottonato, il
vecchio cospiratore continua a cospirare, il commilitone si vanta e lo
sbarazzino inventa!
E ciò non ostante, convinto, malgrado tutti questi inciampi e questi
sconforti, che gli elementi per avviare una intrapresa consimile a
quella che io andavo vagheggiando esistessero e che anco i pochi da
me raccolti potessero bastare; convinto anche più che per condurre a
termine un’opera qualsiasi bisogna pure che qualcuno la incominci;
trassi coraggio dal pensiero di Voltaire: _que du moins j’aurai
encouragé ceux qui me feront oublier_,[2] e mi gettai allo sbaraglio.
Quali siano frattanto quegli elementi, a che si riducano i materiali di
cui potei giovarmi, le fonti a cui attinsi, gli ausilii in cui potei
confidare, è questo, se non m’inganno, il momento di dirlo e lo farò
brevemente.
Le _Vite_ e le _Storie_ stampate sino ad ora intorno a Garibaldi,
si dividono in due categorie: opere di seconda mano, compilazioni,
rifacimenti, compendi, ec., delle quali non accade occuparsi: opere
in parte o in tutto originali, tolte a sorgenti genuine, suffragate da
testimonianze solide e da autentici documenti, sulle quali soltanto si
può fare un assegnamento e che non esitai di mettere a contributo.
E fra queste, intralasciate le opere di carattere generale o le memorie
di soggetto più particolare, che si troveranno citate nel testo, ecco
ad una ad una le principali:
Prima di tutte le _Memorie_ stesse di Garibaldi confidate nel 1859 ad
Elpis Melena (signora Schwarz) colle parole: «_Bologna 29 settembre
1859. — I manoscritti da me rimessi, ad Elpis Melena sono scritti di
mio pugno_;» tradotte e pubblicate dall’Autrice in tedesco col titolo:
_Garibaldi’s Denkwurdigkeiten nach handschriftlichen Aufzeichnungen
desselben und nach autentischen Quellen_, etc., Hamburg, Hoffmann und
Campe, 1861, che vanno dalla nascita dell’eroe sino al 1849 e debbon
ritenersi il primo e fondamentale documento della sua vita. Il primo,
ma non il solo nè indiscutibile, perchè l’Autore stesso, tradito dalla
memoria o dalla fretta, cadde più volte in involontarie confusioni
di date e di fatti, e mirando in alcuni punti a descrivere più la
propria vita interiore che la esteriore, lasciò nel suo lavoro molte
dimenticanze e desiderii.[3]
E dopo le _Memorie autobiografiche edite_, vengono in ordine di
cronologia e d’importanza:
La _Biografia di Giuseppe Garibaldi_ compilata da G. B. CUNEO, Genova,
R. Tipografia Ferrando di proprietà Martini (senza data di stampa);
libretto di sole ottantaquattro pagine, ma prezioso di particolari,
specie sulle gesta dell’eroe nell’Uruguay, e che essendo scritto
da uno de’ più antichi e fidi amici di Garibaldi, dimorante con
lui a Montevideo nei giorni stessi della memorabile guerra contro
l’Argentina, è degno della massima fede.
_Montévideo, ou une nouvelle Troie_ par ALEXANDRE DUMAS, Paris,
Imprimerie Centrale de Napoléon Caix et fils, 1850; libro che sebben
porti un nome alquanto sospetto all’esattezza storica, pure ha il
valore indiscutibile d’essere fondato sopra molti documenti uruguajani
citati nel testo; compilato sulla più grossa istoria del Wright, _Le
Siége de Montévideo_, e in gran parte o dettato o riveduto dallo stesso
generale Pacheco y Obes, ministro della guerra e capo della difesa di
Montevideo, durante l’assedio, e autore a sua volta della
_Réponse aux détracteurs de Montévideo_, Paris, 1849; opuscolo ricco di
documenti ufficiali e di testimonianze gloriosissime, onorevolissime
al condottiero italiano; raccolte poi nella _Lettera_ di G. B. CUNEO
al _Corriere Livornese_ del gennaio 1847; e nei _Documenti intorno a
Garibaldi e la Legione italiana a Montevideo_, pubblicati per cura del
colonnello E. DE LAUGIER, Firenze, Tip. Fumagalli, 1846.
Infine, tacendo per ora di altri opuscoli e giornali sulle vicende di
quel periodo, che più tardi a suo luogo si troveranno, la
_Reseña Historica Estadistica y Descriptiva con Tradiciones orales de
las Repúblicas Argentina y Oriental del Uruguay desde el descubrimiento
del Rio de la Plata, hasta el año de 1876_, por FLORENCIO ESCADRO,
Montevideo, Imprenta de la _Tribuna_, Calle 25 de mayo, 124, 1876, dove
si trova più d’un capitolo dedicato alle prodezze del nostro Eroe.
E passando con lui in Italia:
_L’Écho des Alpes Maritimes; La Concordia_ di Torino; _L’Italia
del Popolo_ e _Il 22 Marzo_ di Milano, tutti giornali del 1848 che
abbondano, quali più, quali meno, di particolari e aneddoti sul ritorno
di Garibaldi in patria.
_La Italia_, Storia di due anni (1848-1849) di C. AUGUSTO VECCHI,
Torino, Tip. Scolastica di Sebastiano Franco e figlio, 1856, 2ª
edizione; libro in cui Garibaldi campeggia, e scritto dall’autore
con candidissima fede; ma, tranne che nei fatti di cui il Vecchi
fu testimonio, o nelle parti documentate, da accettarsi con qualche
cautela.
_La Storia dell’Intervento francese in Roma nel 1849_, del
colonnello FEDERICO TORRE, Torino, Tip. del _Progresso_, 1851;
_La Repubblica Romana del 1849_, di G. BEGHELLI, Lodi, Società
Cooperativo-Tipografica, 1874; _L’Assedio di Roma_, di F. D. GUERRAZZI,
Livorno, Tip. A. B. Zecchini, 1864; variamente pregevoli, ma soltanto
nelle pagine documentate, o avvalorate da testimonianze oculari,
fondamenti di storia.
_Garibaldi in Rom, Tagebuch aus Italien 1849_, von GUSTAV HOFFSTETER,
già maggiore nell’esercito romano, Zurich, Schulbers, 1860. Diario
indispensabile alla storia della celebre ritirata da Roma.
_I Cacciatori delle Alpi comandati dal generale Garibaldi nella guerra
del 1859 in Italia_ di Francesco Carrano, capo di stato maggiore
di Garibaldi, Torino, Unione Tipografico-Editrice, 1860. Racconto
popolare. Libro fondamentale per la campagna di quell’anno.
_Varese ed Urban nel 1859 durante la guerra per l’Indipendenza
Italiana_; notizie storiche raccolte e compilate su documenti dal
sacerdote GIUSEPPE DELLA VALLE, Varese, Tip. Giuseppe Carughi, 1863.
Preziosissima cronica.
_I Mille_, di GARIBALDI, Torino, Tip. e Lib. Camilla e Bertolero, 1874;
dove la storia s’intreccia al romanzo, e nelle stesse parti storiche
l’autore non osserva abbastanza l’esattezza delle date, o confonde
alcune particolarità; ma di cui basta il nome per testimoniare la
importanza.
_La Vita di Giuseppe Garibaldi_, narrata dal P. GIUSEPPE DA FORIO,
Napoli, St. Tip. Perrotti, 1862; compilazione laboriosissima in due
volumi in-8º, e nel secondo, repertorio affastellato, ma fitto di
articoli di giornali, di lettere di Garibaldi, o a Garibaldi, di
squarci di libri, di documenti e materiali d’ogni data, nel quale
frugando con tatto e accortezza, si può accattare una messe di
notizie.[4]
Le Memorie dell’ammiraglio inglese SIR RODNEY MUNDY, _«Hannibal»
at Palermo and Naples during the Italian Revolution 1859-1861. With
notices of Garibaldi, Francis II and Victor Emmanuel_, London, Murray,
1863; opera indispensabile.
_Diario privato politico militare_, dell’ammiraglio C. DI PERSANO,
nella campagna navale dell’anno 1860-1861, Torino, Roux e Favale. Un
vol. in-8º, notissimo, indiscretissimo, utilissimo.
ABBA GIUSEPPE CESARE, _Noterelle d’uno dei Mille_, edite dopo venti
anni, Bologna, Zanichelli, 1880; gioiello di ricordi personali, legato
in una forma di finissimo lavoro.
_Aspromonte_, ricordi storici militari, del marchese RUGGIERO
MAURIGI, ec., Torino, 1862; e _Verità sul fatto di Aspromonte_, per
un testimonio oculare, Milano, 1862, pubblicato da A. Dumas; aiuti
pregevolissimi, il primo più del secondo, alla conoscenza di molti
particolari del triste episodio del 1861.
_Politica segreta italiana_ (1863-1870), Torino, Roux e Favale, 1880;
abbondante di documenti e di notizie, non sempre esatte, sul viaggio
di Garibaldi in Inghilterra, e sul breve periodo d’Ischia, e però da
usarsi con molta critica e cautela.
_Garibaldi_, di ALBERTO MARIO; ritratto vigorosamente schizzato, che
direi tra i più somiglianti, se in molti tratti non si risentisse
troppo della nota fede e del noto entusiasmo dell’autore; ma per tutti
quegli episodi del 1860, del 1866, del 1867, di cui il Mario stesso fu
partecipe e spettatore, autorevole come una storia.
_Storia della Insurrezione di Roma nel 1867_, per FELICE CAVALLOTTI,
continuata da B. E. MAINERI, Milano, presso la Libreria _Dante
Alighieri_, 1869; _L’Italia nel 1867_, storia politica e militare, ec.,
per GUSTAVO FRIGGESY, comandante la seconda colonna nelle giornate di
Monterotondo e Mentana, Firenze, 1868; per giudizi molto discutibile,
per copia di documenti e valore di testimonianze assai autorevole.
_Garibaldi et l’armée des Vosges_. Récit officiel de la campagne, avec
documents etc., par le général Bordone, chef d’état major de l’armée
des Vosges, Paris, Librairie internationale, 1871; e il titolo solo
ne dice la importanza. — E per quanto poi sia difficile vincerne la
ripugnanza, utile a consultarsi.
_Garibaldi, ses opérations en l’armée des Vosges_, par Robert
Middleton, Paris, Garnier frères, 1872; non foss’altro come documento
del furore d’ingratitudine a cui il rimorso d’un beneficio immeritato
può trasportare la bestialità umana. — Dal laido libro ne ristorerà per
la festiva vivacità.
_La Camicia rossa in Francia_, di G. BEGHELLI, Torino, Civelli,
1871; e _I Garibaldini in Francia_, di JESSIE WHITE MARIO; florilegio
delicatissimo di esempi di carità e di valore dato da quei generosi
che, sotto le insegne del Capitano dei Mille, andarono a restituire
alla Francia agonizzante il sangue di Magenta e di Solferino.
E quando io abbia aggiunto a tutto ciò i Documenti e le Lettere che
si possono cavare dalle grandi Raccolte e dagli Epistolari politici
più noti; quali: l’_Archivio Storico triennale delle cose d’Italia_; i
_Documenti della Guerra Santa_; la _Storia documentata della Diplomazia
Europea_, di NICOMEDE BIANCHI; i Documenti ufficiali pubblicati dal
Governo, specialmente nei due momenti d’Aspromonte e di Mentana;
gli _Atti della Camera dei Deputati_; i _Discorsi Parlamentari del
conte di Cavour_, editi da Giuseppe Massari; gli _Epistolari_, del
LA FARINA, dell’AZEGLIO, del PANIZZI, del PALLAVICINO; e infine le
innumerevoli lettere del Generale, gettate, spesso per isconsiderato
zelo di imprudenti amici, ai quattro venti della pubblicità, e dal
1859 stampate in tutti i maggiori giornali contemporanei; e poscia si
compia questa già troppo lunga rassegna, col ricordo delle principali
e più accreditate storie generali politiche e militari; notevoli tra
le prime la _Storia in continuazione del La Farina_, dello ZINI, e
la _Cronistoria dell’Indipendenza_, del CANTÙ;[5] indispensabili tra
le seconde, oltre i Rapporti ufficiali dei quattro stati maggiori,
italiano, francese, austriaco e prussiano, le istorie del Rustow, del
Lecomte, del Pecorìni-Manzoni, del Chiala, del Corsi, del Ferrari, il
lettore potrà formarsi un’idea approssimativamente esatta del materiale
stampato sul quale io ho condotto questo mio lavoro, e dei principali
criteri coi quali ne ho fatto la scelta e l’ho messo in opera.
Ma come io agognava a qualcosa di più d’un semplice lavoro di rifusione
e di critica, nè potevo accontentarmi di ritessere soltanto sull’ordito
altrui, così mi posi tosto, come dianzi accennai, a cercare vicino
e lontano, tra gli archivi pubblici e privati, dalla viva voce e dai
ricordi manoscritti de’ principali cooperatori e confidenti del mio
grande Protagonista, tutto quell’altro maggior soccorso di notizie,
di testimonianze e di documenti, che mi fosse dato raccogliere e mi
paresse atto a sindacare e correggere, schiarire ed integrare le opere
già stampate.
Confesso però che la mèsse fu assai meno abbondante di quella che io
aveva immaginata, e che certamente giace tuttora sepolta, non saprei se
più per l’inabilità mia che non seppe dissotterrarla, o per l’inerzia
di coloro che promisero e non diedero, furono interrogati e non
risposero, per essere poi domani probabilmente i primi censori della
mia fatica.
Tuttavia, ecco il fiore della raccolta:
Centosettantanove pagine autografe, scritte a matita, di _Memorie_
di GARIBALDI,[6] datemi da Giovanni Basso, vecchio amico e segretario
del Generale; reliquia sacra del pensiero e del cuore, che non oserei
gittar tutta in pascolo alla pubblica curiosità, e che custodisco
religiosamente.
Le sue lettere a me, delle quali due o tre sole importanti a questo
libro.
Alcuni _Documenti_ importantissimi sulla vita del Generale a
Montevideo, con isquisita cortesia e generosità raccolti per me da
Don P. Antonini y Diez, ministro dell’Uruguay a Roma, e da suo zio
il signor Giacomo Antonini, vissuto a lungo a Montevideo ed uno degli
amici di Garibaldi sin da quei giorni.
Un _Documento storico_ sul quarantasette confidatomi, nel suo
originale, dal generale Giacomo Medici.
La copia d’una _Lettera_ di Garibaldi ad Anita, datata da Subiaco,
gennaio 1849, cortesemente regalatami dall’ingegnere Clemente
Maraini.[7]
Un estratto dalla _Cronaca di Varese_ del signor A. MORONI, diario
fedelissimo del 1848, cortesemente concessomi dalla famiglia.
Molti _biglietti, lettere, ordini del giorno, decreti_, ec. di
Garibaldi, laboriosamente raccolti durante l’assedio del 1849, e
liberalmente favoritimi dal mio buon amico e compagno d’armi, il
colonnello Guglielmo Cenni, uno dei Mille, prode seguace del Generale
dal 7 aprile al 1º ottobre 1860.
Un fascicolo di _Memorie_ corredate di documenti del luogotenente
colonnello Gioachino Bonnet, che illustrano molte particolarità sin qui
oscure della fuga di Garibaldi per le valli di Comacchio, e gettano una
luce nuova e inattesa sulla tragica catastrofe di Sant’Alberto.
Un fascicoletto di _Ricordi autografi sull’assedio di Roma e il
battaglione dei Volteggiatori Lombardi_ del luogotenente colonnello
CADOLINI, uno dei prodi difensori e feriti del Vascello.
Un grosso quaderno di _Ricordi_ del generale Gaetano Sacchi,
riguardanti principalmente gli anni di Garibaldi in America,
coll’aggiunta di molti particolari poco noti sul 1848, l’assedio di
Roma, la campagna del 1859, la spedizione di Sicilia, vero tesoro
per me, e dopo gli autografi del Generale, la gemma più ricca che dia
qualche pregio a questo libro.
E finalmente passando dai documenti inediti alle testimonianze, molti
appunti da me presi sotto dettatura: dal signor cav. Antonini y Diez
predetto, circa Montevideo; dal signor Andre nizzardo, circa i primi
anni di Nizza; da Giovanni Basso, sui viaggi marittimi; da Menotti
Garibaldi, sulla sua famiglia, da Francesco Crispi e dal generale Türr,
sulla spedizione del 1860; dal dottor Ripari, sopra alcuni particolari
del 1861; e da molti altri amici e commilitoni, che anche in brevi
parole, o mi porsero uno schiarimento, o mi ravvivarono un ricordo, o
mi indicarono una fonte, ed ai quali tutti, qualunque sia la forma e la
misura della loro cooperazione, attesto qui dal più vivo dell’animo la
mia sincera e profonda gratitudine.
Ed ora che ho candidamente esposto il disegno, i mezzi e gli stromenti
di questa mia qualsiasi opera, vegga il lettore se io era degno di
intraprenderla e la giudichi. La giudichi con severità, se vuole, ma
con larghezza. Vegga se in queste pagine vi trova per avventura un
Garibaldi più umano e più storico, ma per ciò appunto, se fosse stato
colto nella sua vera luce, più bello e più grande, e si pronunci.
Non perdoni ad alcun errore essenziale, non assolva alcun giudizio
arbitrario, non mi licenzi alcun tratto capriccioso; ma non mi passi
al lambicco e al microscopio, non mi danni al foco eterno pel primo
peccatuccio veniale, non s’arresti qua ad una data forse non bene
accertata, là ad una variante forse non interamente testimoniata,
altrove ad una sfumatura di tinte forse non perfettamente indovinata:
m’avverta e mi corregga anche di questi falli; ma non mi sentenzi e non
mi decapiti per questi. Però se mi troverò in faccia al primo sistema
di critica, ascolterò con attenzione le accuse, piegherò il capo a
tutte le motivate sentenze e cercherò di fare ammenda delle colpe. Se
mi capiterà tra’ piedi il secondo, tirerò via scrollando le spalle e
disprezzando. E il disprezzo d’un galantuomo fa poco rumore, ma picchia
lo stesso nella coscienza di chi l’ha meritato.
E non mi si ridica quel che già mi son sentito dire a proposito del
mio _Nino Bixio_, che per Garibaldi l’ora della storia non è ancora
suonata. Curioso orologio codesta Istoria che per disporsi a suonar la
sua ora sta sempre fermo e non comincia mai a battere i primi minuti!
Ma io sospetto forte che codesta frase fatta non sia mai stata altro
che il sotterfugio di qualche furbo, il quale non avendo i suoi conti
ben chiari colla storia non trova mai il tempo d’aggiustarli. Devo
averlo detto altrove, ma è il caso di ripeterlo: la storia è l’eterno
_divenire_ hegeliano. I contemporanei la incominciano, i posteri la
continuano e la rifanno perpetuamente. Ciascun secolo la impronta
del proprio suggello arrecandovi il tributo di nuove idee e nuovi
fatti, ma insieme l’ingombro di nuovi errori, di nuovi pregiudizi, e
nuove passioni. Però coloro che sperano l’intera verità storica dalla
posterità, non sono più saggi di coloro che attendono la rivelazione
dell’essere dalla ragione umana. Per essi il Macaulay diceva:
«Ritratti o Istorie che possano offrire la verità tutta intera non
se ne danno; ma i migliori ritratti, i migliori racconti sono quelli
in cui certi lati della verità sono presentati in maniera tale da
produrre, con quanta maggiore approssimazione sia possibile, l’effetto
dell’insieme.[8]»
E concediamo facilmente che la verità storica posseduta dai viventi sia
minore di quella accumulata dai pronipoti; ma a chi appena riguardi
vedrà la maggiore ricchezza di questi non essere altro ancora che il
frutto e l’eredità del lavoro di quelli. Oltre di che, se la storia
contemporanea non può sempre per ragioni d’opportunità o di prudenza
tutto dire e tutto svelare, quelle medesime ragioni, quando siano
espressamente dichiarate, sono di per sè sole un fatto della storia.
Il riserbo che uno storico, coetaneo ai fatti da lui narrati, deve
professare per un partito o per una persona tuttora potenti; il
pericolo di cadere sotto le forbici d’una Censura dispotica, o la tema
di offendere un pregiudizio legittimo od un sentimento popolare, tutti
questi ed altri motivi di silenzio o di dissimulazione sono altrettanti
indizi delle condizioni di un tempo e d’una civiltà; e quando Tacito
ritornava desiderando in quella _rara temporum felicitate ubi sentire
quæ velis et quæ sentias dicere licet_,[9] tratteggiava con un tocco
solo l’età dei Claudi e dei Neroni, meglio che avrebbe potuto fare con
una intera cronaca di fatti. Lasciamo dunque ai pusilli, ai mediocri ed
ai tristi la paura della Storia; gli atleti come Garibaldi, che l’hanno
sfidata viventi, che l’hanno scritta col loro sangue e glorificata
colla loro vita, non la temono morti.
Ma prima di prendere commiato dal benigno lettore, mi preme di
sbarazzare a me il terreno, a lui forse la mente da una ultima
obbiezione; un’obbiezione che non mi fu fatta, è vero, direttamente, ma
che mi parve risonare con una nota dominante e un ritornello preferito
nell’universale epicedio che la terra tuttora sbigottita e commossa non
è stanca di sciogliere sulla tomba del suo maraviglioso figliuolo.
Si dice che Garibaldi non è una persona, ma una personificazione; non
è un uomo, ma un mito; laonde chi lo aggrava di una cappa storica, e lo
costringe nelle seste della critica e lo rapisce ai liberi cieli della
leggenda e della poesia, lo offusca e lo impiccolisce. Io non lo credo:
io sento quanto altri tutto ciò che vi è in lui di straordinario, di
fenomenale, di difficilmente riducibile, starei per dire, al comun
canone umano; ma d’altra parte, come nessuno vorrà obbligarmi a credere
al miracolo ed a contribuire ad una deificazione, così persisto nel
ritenere che quanto più avremo studiato l’uomo portentoso nelle cause
e nelle leggi naturali e storiche che l’originarono, e tanto più il
portento ci apparirà grande e raggiante di quella luce meno fantastica
e abbarbagliante, ma più intensa e più durevole che irradia soltanto
dall’inestinguibile focolare della verità.
L’Etna è forse il più favoloso e mitologico di tutti i monti della
terra: pure soltanto l’alpinista ardito che, di girone in girone,
su per le sue spalle di lava, n’abbia raggiunto il cratere, può
comprenderne la terribilità maestosa ed evocare nella fantasia i
giganti fulminati che vi stanno sepolti. Così di Garibaldi, la sua
leggenda parrà tanto più meravigliosa e sarà tanto più indistruttibile
quanto più s’imbaserà largamente nella Storia, e il Critico futuro
sentirà palpitare, sotto la spoglia granitica del nuovo Titano italico,
le carni d’un uomo.
Nè la Storia nocque mai alla leggenda; spesso ha sfatato la spuria,
fiore artificiale della rettorica letteraria, del fanatismo politico,
o della superstizione religiosa; ma ha rispettato quella legittima,
frutto della ingenua e calda fede popolare, anzi più d’una volta ha
aiutato ad allargarla, a schiarirla, e interpretarla.
Quanto non si è scritto di critica storica, e per tacere degli
eroi leggendari di Grecia e di Roma, intorno a Carlomagno e a’ suoi
Paladini; al Tell ed a Giovanna d’Arco; al Re Arturo e a Federico
Barbarossa! Ebbene, hanno essi perduto alcuna parte della loro poetica
vita? V’è egli, non dirò poeta e romanziere, ma storico e filosofo, che
neghi o rifiuti, e non adoperi sovente come simbolo e personificazione
della nobiltà cavalleresca, della fede, della patria, dell’autorità,
della forza, dell’amore, della sventura, quelle romantiche creazioni
della medioevale fantasia?
Nè bisogna scordarsi che una trasformazione totale dell’uomo storico
nell’eroe favoloso, quale avvenne nella culla del mondo greco o negli
albóri del mondo cristiano, non è più possibile. Per sostenerlo
converrebbe immaginare non solo un regresso della civiltà fino
all’infanzia e quasi alla barbarie, ma una scomparsa universale di
tutti i ricordi, di tutti i documenti, di tutti i monumenti della
Storia, il che per lo meno è tanto lontano quanto la scomparsa della
terra stessa.
Ma finchè l’incivilimento, con tutti gli strumenti e le forze da
lui accumulate, esista; fino a che la stampa, formidabile divinità,
signoreggi nel mondo, e possa con milioni d’occhi scrutare, e milioni
di bocche denunziare, e milioni di pagine perpetuare le azioni anco
de’ più ascosi mortali, non ci sarà fede creatrice di popoli, nè genio
inventivo di poeta che possa sviluppare un uomo della Storia dalla
realtà che da capo a piedi lo fascia, sottrarlo al sindacato della
ragione critica che da ogni parte lo assale, svellerlo totalmente dalla
terra per sublimarlo alle nubi e farne una costellazione del cielo.
Orlando o Maometto, Spartaco o Cesare, la forma e il grado di
trasfigurazione che le età nuove consentiranno oramai ai loro
grandissimi, non potranno oltrepassare i confini d’una contemplazione
commossa della loro umanità e d’una glorificazione entusiasta della
loro virtù.
Guardate Washington e guardate Napoleone. Quali figure, in diverso
e quasi inimico aspetto, più colossali e più degne delle apoteosi
dell’epica! Eppure non ostante il culto consacrato all’uno dagli eredi
beneficati d’un sublime retaggio di Libertà, all’altro dai superstiti
d’una gigantesca epopea, nessuno di loro potè sfuggire alle leggi
della sua civiltà e del suo tempo, e pur restando entrambi sul loro
piedistallo maravigliosi, nessuno riuscì a divenir leggendario. Così,
senz’alcun proposito di istituir confronti, che la fortuita vicinanza
di questi tre nomi potrebbe far sospettare, così Garibaldi.
Egli torreggia già sull’Olimpo e salirà, salirà ancora, ma sciogliersi
interamente nelle nebbie della leggenda, gettare la sua personalità e
responsabilità d’uomo non lo potrà mai. La Storia lo ebbe, e la Storia
lo terrà. Dica pure Dante a Virgilio:
Mai non pensammo forma più nobile
d’eroe...........
Livio giustamente risponderà sorridendo:
È de la Storia, o poeti,
de la civile Storia d’Italia
è quest’audacia tenace ligure,
che posa nel giusto, ed a l’alto
mira, e s’irradia nell’ideale.[10]
Padova, 15 giugno 1882.
GIUSEPPE GUERZONI.
[Illustrazione: FAC-SIMILE DI DUE PAGINE DELLE MEMORIE DI
GARIBALDI]
GARIBALDI.
CAPITOLO PRIMO.
DALLA NASCITA AL PRIMO ESIGLIO. [1807-1836.]
I.
La _Gazzetta Piemontese_ del 17 giugno 1834 pubblicava la seguente
«SENTENZA.
Genova, 14 giugno 1834.
»Il Consiglio di Guerra divisionario sedente in Genova convocato
d’ordine di S. E. il signor Governatore Comandante Generale della
Divisione
»Nella causa del Regio Fisco militare contro _Mutru Edoardo_ del
vivente Giovanni, d’anni 24, nativo di Nizza Marittima, marinaro
di 3ª classe al R. servizio. — _Canepa Giuseppe Baldassare_ del fu
Giov. Battista, d’anni 34, nato e domiciliato in Genova, commesso
in commercio, sottocaporale provinciale nel 1º Reggimento Savona. —
_Parodi Enrico_ del vivente Giovanni, d’anni 28, marinaro mercantile,
nato e domiciliato in Genova. — _Dalus Giuseppe_ detto _Dall’Orso_
del fu Francesco, d’anni 30, nato a Praja dell’isola di Terzeïra
(Portogallo), marinaro mercantile di passaggio in Genova. — _Canale
Filippo_ del vivente Stefano, d’anni 17, nato e domiciliato in
Genova, lavorante libraio. — _Crovo Giovanni Andrea_ del vivente Giov.
Agostino, d’anni 36, nativo di Carreglia (Chiavari) e domiciliato in
Genova, sostituto segretario del Tribunale di Prefettura. — _Garibaldi
Giuseppe Maria_ del vivente Domenico, d’anni 26, capitano marittimo
mercantile e marinaro di 3ª classe al R. servizio. — _Caorsi Giov.
Battista_ del fu Antonio, detto il figlio di Tognella, d’anni 30 circa,
abitante in Genova. — _Mascarelli Vittore_ del vivente Andrea, d’anni
24 circa, capitano marittimo mercantile, dimorante nella città di
Nizza;
»I primi sei detenuti e gli altri contumaci, inquisiti di alto
tradimento militare, cioè:
»Li Garibaldi, Mascarelli e Caorsi di essere stati i motori d’una
cospirazione ordita in questa città, nei mesi di gennaio e febbraio
ultimi scorsi, tendente a fare insorgere le Regie truppe, ed a
sconvolgere l’attuale Governo di Sua Maestà; di avere li Garibaldi
e Mascarelli tentato con lusinghe e somme di denaro effettivamente
sborsate d’indurre a farne pur parte alcuni bassi uffiziali del
Corpo Reale d’Artiglieria, e di avere il Caorsi fatto provvista a sì
criminoso scopo d’armi, state poi ritrovate cariche, e di munizioni da
guerra. E gli altri sei di essere stati informati di detta cospirazione
e di non averla denunciata all’Autorità Superiore, e di essersi anzi
associati;
»Udita la relazione degli Atti, gli inquisiti presenti nelle loro
rispettive risposte, il R. Fisco nelle sue conclusioni, ed i difensori
nelle difese degli accusati presenti
»_Il Divino aiuto invocato_
»Reietta l’eccezione d’incompetenza opposta dai difensori di alcuni
accusati — Ha pronunciato doversi condannare, siccome condanna, in
contumacia i nominati _Garibaldi Giuseppe Maria, Mascarelli Vittore_ e
_Caorsi Giov. Battista_, alla pena di morte ignominiosa e dichiarandoli
esposti alla pubblica vendetta come nemici della Patria e dello Stato,
ed incorsi in tutte le pene e pregiudizi imposti dalle Regie Leggi
contro i banditi di primo catalogo in cui manda gli stessi descriversi.
— Ha dichiarato li Mutru Edoardo, Parodi Enrico, Canepa Giuseppe
Baldassare, Dalus Giuseppe e Canale Filippo non convinti allo stato
degli Atti del delitto ad essi imputato, ed inibisce loro molestie dal
Fisco. — E finalmente ha dichiarato e dichiara insussistente l’accusa
addebitata all’Andrea Crovo, e lo rimanda assoluto. — Genova, 3 giugno
1834.
»Per detto Illustrissimo Consiglio di Guerra
»BREA, segretario.
»Visto ed approvato
»_Il Governatore Comand. gen. della Divisione_
»Marchese PAULUCCI.»
Era questa la prima volta, dice Giuseppe Garibaldi nelle sue
_Memorie_,[11] che leggeva stampato nei giornali il suo nome: era
questa la prima volta che lo leggevano gl’Italiani.
Chi mai avrebbe detto che l’oscuro marinaio di 3a classe, _il bandito
di primo catalogo_, il condannato nel capo per disertore e ribelle,
avrebbe presentato un giorno al Figlio di quel Re che lo mandava
al capestro una delle più belle corone d’Italia; parteciperebbe
con un gran Principe e un gran Ministro alla gloria di rivendicare
l’indipendenza e fondare l’unità della patria sua; «empirebbe del suo
nome (per dirla colle parole di Vittorio Emanuele) le più lontane
contrade;» diverrebbe uno degli uomini più popolari e delle figure
più meravigliose dei tempi moderni; invecchierebbe in una specie
d’inviolabilità, sotto l’egida della sua passata grandezza; morrebbe
con onori regali, e sopravviverebbe a sè stesso nell’immortalità della
storia?
Eppure quel giovane che l’Italia vedeva per la prima volta sui passi
dell’esiglio, inseguíto da una pena capitale, portava fin d’allora in
sè stesso tutte le promesse di un non volgare destino.
Quantunque ancora perduto nella folla, chiunque avesse potuto
conoscerlo e studiarlo da vicino, nella sua indole, ne’ suoi costumi,
ne’ suoi atti, nelle sue parole poteva fin d’allora presagire che
tosto o tardi egli sarebbe uscito di schiera e avrebbe fatto parlare di
sè. In qual modo egli n’avrebbe fatto parlare, era questo il segreto
dell’avvenire; ma certo l’avvenire aveva dei segreti per lui, e lo
aspettava.
Da quell’ignoto poteva uscire, secondo gli eventi e le fortune, così
un ardito corsaro come un glorioso ammiraglio, tanto un bandito famoso
quanto un candido eroe, così un avventuriere fortunato come un grande
capitano; ma non poteva più uscire oramai un uomo comune.
Già a ventisei anni egli aveva provato che, se la sua vita poteva
restare oscura, non lo poteva la sua morte. Anche arrestato per via
dal laccio del carnefice si sarebbe scritto sulla sua tomba: qui giace
un martire. Anche sparito nella tenebra d’un naufragio il marinaio
ligure ne avrebbe lungamente ripetuto il nome a’ suoi figliuoli come un
esempio d’intrepidezza e di virtù.
Giuseppe Garibaldi era un predestinato; e la Provvidenza (perchè dirla
il cieco destino?), temperandolo fanciullo nell’ampia palestra dei
mari e delle tempeste, aprendogli nella giovinezza e nella virilità
una scena adatta alle sue attitudini ed alla sua forza, scampandolo da
tanti pericoli e persino da sè stesso, aveva tutto predisposto in lui
e attorno a lui perchè riuscisse degno della singolare missione che gli
aveva affidata.
Che se essa non apparve sempre tutta buona, tutta provvida, tutta
grande, fu però ottima, provvidissima, grandissima un giorno, e ciò
basta alla posterità ed alla storia.
II.
Un novelliere francese lo fece nascere in alto mare, in una fragile
barca, tra i lampi e i tuoni d’una notte di tempesta, e non sembra
davvero che la vita di Giuseppe Garibaldi avesse mestieri d’essere
infrascata d’un romanzo di più.
Nacque, assai più tranquillamente, in Nizza Marittima, il 4 luglio
1807, un anno prima di Mazzini, in una casetta del _Quai Lunel_, oggi
_Quai Cassini_, da Domenico Garibaldi e da Rosa Raimondi.[12] Che poi
in quella medesima casa, anzi nella medesima camera sia venuto al mondo
49 anni prima Andrea Masséna, Garibaldi lo credette e lo scrisse, e
ai dilettanti d’oroscopi potrà dare nel genio; ma non è. Se ancora fu
leggenda viva per qualche tempo fra Nizzardi, oggi la lapide memoriale
che il Comune nizzardo pose sulla casa del _Quai Cassini_, la quale
ricorda solo il nome di Garibaldi, e l’altra posta sulla casa del
_Quai Jean Baptiste_ che afferma asseverantemente quella essere stata
il tetto natale del «prediletto figlio della vittoria,» tolgono ogni
dubbiezza.
La famiglia dei Garibaldi era oriunda di Chiavari e non si trapiantò
in Nizza che intorno alla fine del secolo XVIII. Come a Napoleone
dopo Marengo, così a Garibaldi dopo Marsala la compiacente Musa
dell’Araldica fece sorger dal suolo un completo albero genealogico, le
di cui radici si perdono nel profondo dell’età longobarda; ma ognuno
vorrà credere che, se anco non ci mancassero argomenti per entrare in
siffatto litigio, ci mancherebbe pur sempre l’ozio. Non v’ha dubbio che
il nome (_Gar_ o _Garde-bald_) l’accusa d’origine tedesca e antica; ma
se egli procedette davvero in retta linea da Garibaldo duca di Torino,
e da tutta quella non interrotta progenie di capitani di mare, di
uomini d’armi e di magistrati, che il dotto genealogista gli regalò,
questo non sapremmo davvero nè affermare nè negare.
A noi paghi, come il nostro eroe, di antenati meno illustri e più
certi, basti tenerci sicuri di questo: che verso la metà del secolo
scorso viveva in Chiavari un Angelo Garibaldi di vecchia e onesta
casata di capitani di mare ed armatori, capitano ed armatore egli
stesso: che quell’Angelo venne intorno al 1780 per trapiantarsi con
tutta la famiglia a Nizza; che in quella famiglia c’era un figliuolo di
nome Domenico e che questo Domenico, sposata Rosa Raimondi, divenne il
padre di cinque figliuoli, tra cui il nostro Giuseppe.
A Nizza poi la storia dei genitori e dei fratelli di Garibaldi è
notissima; e se è probabile che assai pochi sieno i superstiti di
coloro che li conobbero di persona, sono però molti e vivi ancora
quelli che la udirono raccontare da’ loro vecchi e la ripetono così:
Domenico Garibaldi, o, come lo chiamavano i suoi colleghi del Porto,
_Padron Domenico_, non fece studi di sorta; imparò la nautica sui
bastimenti del padre, e a forza di navigare, più per pratica che per
teoria, crebbe abile ed esperto marino. Rimasto orfano e padrone
di qualche ben di Dio, non lasciò per questo l’arte paterna; armò
bastimenti di suo, ne prese il comando egli stesso e li portò
con alterna fortuna, ma sempre con onore, per tutti i porti del
Mediterraneo. Non oltre però: chè per cimentarsi alle lontane
navigazioni transatlantiche e persino ai più vicini scali di Levante
gli fecero difetto sempre la portata de’ bastimenti, le cognizioni del
navigatore, e fors’anche più l’audacia e l’ambizione.
Era quindi e restò sempre un modesto capitano di cabotaggio, pratico
di tutti i paraggi del mar ligure da girarvi a occhi chiusi; sulla
poppa della sua tartana, la _Santa Reparata_, sicuro come in casa sua,
ma incapace d’uscire dal giro tradizionale della sua vita, ed alieno
dal rischiare tutta la sua fortuna sopra tavolieri troppo vasti e
cimentosi. Infatti dopo tanti anni di corse, di traffici, di sudori,
se non aveva intaccato il modesto patrimonio paterno, non l’aveva
neanche accresciuto, e non era giunto, malgrado tanti sforzi, che a
consolidarsi in quella mezzana agiatezza borghese, la quale, finchè la
famiglia è riunita o i figliuoli son piccini, pare soverchia, ma che
appena i figliuoli ingrandiscono e la famiglia si divide, assomiglia
molto davvicino alla strettezza e quasi alla povertà. Del resto,
brav’uomo, testa angusta, cuor largo, probo, servizievole, benevolo,
quindi beneviso: questo è il padre di Garibaldi, come ci fu ritratto
da persone che lo viddero e lo conobbero; quale è tuttora vivente nella
memoria dei Nizzardi.
Ma ancora più viva e venerata dura la ricordanza di sua moglie Rosa
Raimondi, o per chiamarla essa pure col nome pieno di riverente
affetto con cui la conobbe sempre il popolo di Nizza: _la signora
Rosa_. Discendeva da una casa popolare, ma benestante, di Savoia;
era donna di bellezza non comune, di costumi semplici e modesti, e di
straordinaria pietà. Nessuno però avrebbe potuto accusarla di melensa
bacchettoneria; osservava senza farisaismo come senza vergogna le
pratiche del suo culto; ma sapeva, e lo dimostrava coi fatti, che la
vera religione di Dio è essenza del bene, amore de’ simili e fiamma
di carità. E come il cuore così non aveva volgare la mente. Fin da
fanciulla aveva potuto tesoreggiare qualche istruzione; amava molto le
letture, intendeva, meglio forse che il marito, i segni del suo tempo e
le secrete vocazioni del suo secondogenito, di cui sentiva maturare con
amore atterrito la perigliosa grandezza. Del resto passava le ore che
le domestiche cure le consentivano al letto degli ammalati; distribuiva
con sapiente larghezza gran parte del suo ai poveri, e diveniva per
la sua gentilezza e carità tanto popolare, specialmente negli umili
quartieri del Porto, che bastava nominare la _signora Rosa_ perchè
tutti corressero col pensiero a colei che n’era, in certa guisa, la
fata benefica.
Ma nessun maggiore elogio di Rosa Garibaldi delle parole che il
figliuolo stesso già adulto le consacrava nelle sue _Memorie_. Anche
del padre rammenta con gratitudine la vita laboriosa ed onorata, gli
sforzi fatti per la sua educazione, col rammarico d’aver retribuito
di sì scarsi frutti tante cure e tanti sagrifici; ma quando viene a
parlare della madre gli erompe dal cuore tale un grido d’affetto e
di riconoscenza, che pochi figli saprebbero ripetere l’uguale: «Mia
madre, lo dichiaro con orgoglio, mia madre era il modello delle madri,
e credo con questo avere detto tutto. Uno de’ miei maggiori rammarichi
sarà quello di non poter far felici gli ultimi giorni della mia buona
genitrice, la di cui vita io amareggiai tanto coll’avventurosa mia
carriera. Soverchia fu forse la di lei tenerezza; ma non devo io
all’amor suo, all’angelico di lei carattere il poco di buono che si
rinviene nel mio? Alla pietà di mia madre, all’indole sua benefica e
caritatevole, alla compassione sua verso il tapino, il sofferente,
non devo io forse la poca carità patria che mi valse la simpatia e
l’affetto de’ miei disgraziati, ma buoni concittadini? Oh.... abbenchè
non superstizioso, certamente non di rado, sul più arduo della
strepitosa mia esistenza, sorto illeso dai frangenti dell’Oceano, dalle
grandini del campo di battaglia, mi si presentava genuflessa, curva al
cospetto dell’Altissimo, l’amorevole mia genitrice implorandolo per la
vita del nato dalle sue viscere!... ed io credevo all’efficacia della
preghiera!...[13]»
Belle e sante parole, che diresti ispirate dalla Musa stessa della
figliale eloquenza, e che rivelandoci a un tratto quanto fosse
squisita in quel cuore leonino la fibra dell’amor figliale, ci fanno
già presentire quanto sarà, un giorno, appassionato, cieco e quasi
improvvido il cuore del padre.
E quel che è più, egli suggellò queste parole scritte in un impeto di
religioso entusiasmo col culto dell’intera sua vita.
In Caprera il solo ritratto di donna che si veda sopra il capezzale
del Generale è quello d’una bella vecchina, avvolto il capo da un
fazzolettino rosso, che sorride dolcemente: il ritratto di sua madre.
Nella casa Garibaldi da trent’anni non si festeggia più l’onomastico
del Generale, perchè quel giorno coincide coll’anniversario della
morte di sua madre (19 marzo 1852), ed è giorno sacro alla sua
memoria. D’onde si vede che l’amor vero può suggerire le più signorili
raffinatezze della pietà anche ai lupi di mare!
Ma, come dicemmo, _Peppino_ (era questo il vezzeggiativo col quale il
nostro Giuseppe era chiamato per la casa, finchè verrà il giorno in cui
i Nizzardi lo chiameranno _Monsù Pepin_) non era il solo frutto d’amore
che la signora Rosa aveva dato a padron Domenico. Egli veniva in mezzo
a quattro altri fratelli, Angelo, che l’aveva preceduto, Michele,
Felice ed una sorella, di cui non sappiamo il nome, che l’avevano
seguíto. Angelo, la testa quadra della famiglia, il braccio destro del
padre finchè stette in casa, fu uomo di molta perizia e riputazione
negli affari mercantili e marinareschi, e finì negli agi, console di
Sardegna agli Stati Uniti d’America. Michele si dedicò più specialmente
al navigare; divenne capitano marittimo, non uscì quasi mai dalla
modesta penombra dell’arte sua, e morì il 21 luglio 1866. Felice
lasciò dietro a sè la nomina di elegante zerbino, gran cacciatore di
donne; esercitò con qualche fortuna il commercio; fu agente per molti
anni della casa Avigdor a Bari, e cessò di vivere non ancora vecchio
nel 1856. La sorella finalmente fu, bambinetta ancora, non sappiamo
per quale caso funesto, avvolta dalle fiamme, e vi morì orrendamente
bruciata.
Questo è tutto quanto ci fu dato spigolare, non senza fatica, sulla